Alberto Pellai non ha certo bisogno della mia presentazione, chi volesse controllare tutti i suoi titoli o contattarlo, può andare qui, e qui.
Il senso di queste mie righe, che non saranno naturalmente sufficienti, è di ringraziarlo per i pensieri che ha voluto regalare a FQCP.
Così le nostre riflessioni su #raccontiamoinsieme si arricchiscono di un parere esperto e questo ci onora e ci riempie di responsabilità.
Ma senza timori Faccio Quello Che Posso resterà il nostro motto.
Abbiamo chiesto al dottor Pellai qualche riflessione sul raccontarsi degli adolescenti, quel momento in cui alla domanda: “Come va?”, noi genitori rischiamo di ricevere solo grugniti di risposta. Allora non ci azzardiamo più a farla, ma rimane il pensiero.
Non racconta più a me, ma racconta ancora?
Raccontarsi.
Narrare se stessi a se stessi, in primo luogo.
Ma poi imparare anche a narrare se stessi agli altri.
Fare tutto questo dando il primato alla parola e non all’immagine.
In adolescenza questo principio è stato un fondamento della crescita per intere generazioni. Il “diario personale” era uno dei regali che quasi sempre un adolescente riceveva al compimento dei 14-15 anni. Lì, dentro al proprio diario, ogni ragazza o ragazzo cominciavano la costruzione della propria identità. Perché l’autonarrazione permette di lavorare sul “proprio dentro”, definisce e struttura l’interiorità consentendo la costruzione di un modello di sé, che prima di essere agito, deve essere pensato. Mettere ciò che si è per iscritto, significa depositare in uno spazio esterno il proprio mondo interno, così da poterlo “maneggiare meglio”. L’autonarrazione è stata la base della costruzione dell’identità per moltissime persone che non avrebbero potuto essere ciò che sono diventate senza questa fondamentale operazione. Sapersi raccontare a se stessi rende poi più facile raccontarsi anche agli altri, permettendo alle parole di diventare un tramite reale dei significati profondi che di noi vogliamo condividere con chi ci vive a fianco.
Autonarrazione, valore e significato della parola, generare una sintesi tra il proprio mondo interno e ciò che sta fuori di noi: tutto questo oggi sembra “dissolversi” nell’ansia che i ragazzi hanno di mostrare la propria immagine e di definirsi attraverso la condivisione di ciò che è “esteriore”. Doversi raccontare in un social network, dove le immagini parlano più delle parole, dove le parole sono spesso poche e senza significato (tanto da essere sostituite da emoticon) rende enormemente complesso quel lavoro di individuazione interiore e di definizione di sé che in passato veniva affidato alla compilazione del diario o al tanto tempo trascorso dagli adolescenti nel silenzio della propria camera, dove in assenza di stimoli, stavano a immaginare se stessi nello spazio vuoto della propria mente, riempiendola di percorsi, immagini e possibilità. Oggi il tempo e lo spazio dei ragazzi è pieno di stimoli e questa iperstimolazione non lascia mai la possibilità di sentire che crescere significa anche trovare parole che costruiscano il senso di sé. Senso di sé che è l’unico pre-requisito fondamentale a sorreggere poi un progetto di vita.
Alberto Pellai