Voglio esordire, in modo ufficiale, con la parola casa.
Perché Alessandra, invitandomi qui, mi ha detto: dai, vieni! Ti do le chiavi di casa.
E io, lo ammetto, ho pensato: è folle.
Diciamolo: non è che si diano a tutti, le chiavi di casa. Figuriamoci di una casa fatta di parole, dove i propri pensieri sono divanetti felici su cui posare le stanchezza di “fuori”. E dalla cui finestre si ammira il mondo, reale e virtuale.
Però, a pensarci bene, la parola casa include il concetto di condivisione: e sotto questa luce, mi era tutto chiaro.
Così le ho detto: prepara qualcosa da bere, arrivo! E sono felice e onorata di condividere questo spazio e questo pezzetto di cammino.
Ho scelto “casa”, anche perché per me, per molto tempo, questa parola ha acquisito significato solo nella contrapposizione: come assenza, lontananza, nostalgia o miraggio. Per chi è nato in un altro paese, casa è sempre un luogo lontano. Soprattutto, se sei nutrito a pane e “appocundria”*. Per quanto ti possano far sentire integrato, il richiamo delle radici è sempre fortissimo. E questo senso forte di spaesamento mi ha accompagnato per moltissimo tempo: perché anche il ritorno, nell’Eden vagheggiato, ha la sua bella complicanza, il suo grado di smarrimento, la fatica del ricominciamento.
Il caso ha deciso che questo stato confusionale dovesse persistere e mi ha mandato ad abitare più a nord dei miei desideri. Gli ultimi sedici anni li ho passati a costruire cose a Milano; una città che ho guardato a lungo con sospetto, ma che più di tutte ha saputo restituirmi, attraverso i suoi abitanti, il senso profondo dello straniamento, ma anche della comunanza. Ci si ride su che a trovare un milanese doc si fatica. Ma la statistica a naso ben restituisce una realtà: i milanesi sono pugliesi, campani, veneti, calabresi, siciliani e sono cinesi, nord africani, rumeni, albanesi, cingalesi, filippini, sudamericani.
In questa mescolanza di culture e tradizioni, lingue e malinconie, pelle e sapori, io mi riconosco. Ho fatta mia la ricchezza che porta la diversità.
Qui, in questa Milano fatta di mille anime, crescono i miei figli. E con loro, i figli di quelli che “aiutiamoli a casa loro”. Questa Città ora è e sarà la loro casa. E io sono felice che sia qui: nella “terra di Mezzo”, dove ciascuno ha portato radici un po’ secche, le ha piantate in una terra fatta di mille strati di humus, ha spinto per fare fiori, sta lavorando per dare frutti e dalla condivisione, ne sono certa, nasceranno buoni semi.
Perché casa non è dove hai il cuore. Casa è dove decidi di aprire la porta.
*in dialetto campano: dolce e torturante malinconia