Da quando li ho incontrati, mi sono chiesta quale fosse il loro trucco.
La prima volta ho intervistato Alberto Pellai agli inizi dell’avventura di Faccio Quello Che Posso, dovevamo parlare del libro appena uscito, L’educazione emotiva, ma dopo cinque minuti avevo in mente la fatidica domanda, “ma sua moglie?”
Perché per chi come me fa lo stesso lavoro del proprio marito, con cui condivide un numero ragguardevole di figli, è scontato che dietro una carriera brillante e produttiva ci debba essere un grandioso back office e a tenere tutto in equilibrio una gran donna.
E siccome sono una peste, non mi sono mai lasciata affascinare dagli uomini dalla brillante carriera per cui i figli sono una bella foto sulla scrivania, ho sempre voluto vedere come stava il back team.
Naturalmente Alberto Pellai non è fra questi e dopo sei minuti mi ha magnificato i meriti di sua moglie e fatto venire voglia di conoscerla.
Poi li ho incontrati insieme, per l’uscita de L’età dello tsunami , scritto a quattro mani, intorno a quel tavolo in De Agostini, lo scambio è stato profondo, mi ha fatto pensare e capire molte cose. Ma ancora una volta mi ha lasciato con una domanda: ” Ma come fanno?”
Perché la vita che riescono a gestire Alberto Pellai e Barbara Tamborini, è quella che sogno io. E da quando sono piccola mi guardo in giro alla ricerca di modelli di famiglie felici, e loro sono proprio quella cosa lì, quattro figli, un bel lavoro che dà soddisfazione a entrambi, fanno quello che possono, nessuno resta indietro.
Dopo averli visti con davanti tutti i loro libri mi sono davvero chiesta, ” ma ci sarà un metodo?”
Ed ecco che quei due ce lo scrivono Il medoto della famiglia felice.
E io non posso far altro che consigliarne la lettura a tutti, e per i più coraggiosi anche di usarlo davvero in famiglia. Ci sono giochi da fare insieme, film da vedere, emozioni da condividere. Per crescere insieme, felici.
La cosa che mi risuona di più è il punto di partenza: l’idea che la famiglia sia una squadra, in cui il tutto è maggiore della somma delle parti, e sta a noi riuscire a far sì che il tutto sia anche migliore.
Parlare di quoziente di autostima famigliare è dare voce ai miei pensieri più profondi, quelli che in tutti questi anni mi hanno fatto privilegiare il restare insieme, anche davanti alle difficoltà.
Perché la vita non è sempre una passeggiata, e a volte vien da pensare che sia più semplice viaggiare da soli. Ma in vent’anni il cuore alla fine ha sempre sentito che anche se gli esiti inattesi sono più di quelli prevedibili, la sfida è imparare a navigare bene insieme.
La famiglia è un investimento, per la vita. Si costruisce giorno per giorno, un pezzetto alla volta. Meglio se si ha una guida.
Il desiderio di fare squadra è ciò che ha sostenuto la mia scelta di emigrare. Difficile essere un team se un pezzo importante vive altrove, e poi se proprio il futuro dei nostri figli dovesse essere partire, tanto meglio farlo insieme almeno per il primo pezzo.
Ma abitare insieme non vuol dire automaticamente diventare una squadra, in mezzo c’è parecchio lavoro da fare.
E anche se noi una squadra lo eravamo già, e piuttosto efficiente, la nostra specialità era fare case per le famiglie.
Ma della felicità da metterci dentro non avevamo mai avuto grande esperienza.
Così nel mio lavoro certosino, spesso imperioso, per ricucire una famiglia dai frammenti di vita che avevamo ereditato, per strappare tempo insieme a un lavoro che tutto ingoia, senza saperlo stavo seguendo un metodo.
Nel metodo c’è la fatica di trovare un film che metta tutti d’accordo. C’è un divano a cinque posti pieno di pop corn. C’è il gioco di società che ogni anno porta Babbo Natale e prima il più piccolo giocava in coppia, ora ci batte tutti senza pietà. Ci sono i tentativi di salvare la cena come zona franca, in cui tutti abbiano la possibilità di raccontare. Ci sono i turni per i mestieri.
E ora che Alberto e Barbara ne hanno fatto un libro, mi sento più tranquilla, nei momenti di dubbio, posso sempre fare un ripassino.