La mamma di Barack Obama era una single mother.
Era stata brevemente sposata con il padre di Barack, giusto il tempo perché il piccolo ne portasse il nome, prima di sparire.
Ma lei non era tipo da perdersi d’animo, ma sopratttuto era una grande mamma che avrebbe fatto qualsiasi cosa perché il suo bambino non sentisse la mancanza del padre. Così quali che fossero i suoi progetti di vita, tornò a vivere coi genitori alle Hawaii e con loro crebbe Barack fino ai sei anni.
Poi si innamorò e si risposò. Suo marito era indonesiano, si vede che le piacevano gli uomini più scuri di lei, e la nuova famiglia decise di trasferirsi nel paese al di là del Pacifico dove il piccolo Barack fu iscritto a scuola.
A questo la storia che l’ex presidente ha raccontato a David Letterman nella bella intervista prodotta da Netflix, arriva al punto in cui io volevo fare la hola sul divano.
La mamma di Barack non era affatto sicura che la scuola indonesiana fornisse un’educazione adeguata al suo bambino, e per lei l’educazione era una cosa molto importante.
Così ogni mattina lo svegliava alle cinque e, prima che andasse a scuola, gli faceva studiare tutto quello che lei riteneva necessario a completare il programma.
Il piccolo Barack però era un bambino come gli altri, quindi non era affatto contento della levataccia.
E come tutti i bambini non mancava di presentare le sue sentite rimostranze alla mamma, si ribellava e protestava, è lui ad ammetterlo.
Finché, quella gran donna che avrei proprio voluto conoscere, una mattina perse la pazienza e gli diede una bella girata:
-“Ehi, you, it’s not picnic for me either!”
Che dalle nostre parti sarebbe una cosa tipo, “non credere che io invece me la stia passando”, oppure “neanche per me è una passeggiata”, o magari anche ” se non vieni qui a studiare i verbi irregolari, giuro che come t’ho fatto ti disfo”.
Che pare fosse più meno quello che urlava la mamma di Daniel Barenboin quando lo chiamava dal cortile dove correva dietro a un pallone, perché rientrasse a esercitarsi al pianoforte.
Detto ciò, d’ora in poi quando al pomeriggio inforcherò la grammatica italiana e il libro degli esercizi, non invocherò solo la mia nonna maestra, ma a mio conforto, e a rispondere a Maria Montessori e Rudolf Steiner che mi rimbombano nelle orecchie, avrò anche la mamma di Obama.
Perché per noi genitori moderni non è così facile essere autoritari, anzi noi vogliamo essere autorevoli, l’autorità non ci piace mica troppo. E men che meno imporci, vorremmo che i nostri figli condividessero gli obbiettivi, che capissero che lo sforzo vale la meta.
Ma vaglielo tu a spiegare a un novenne con la porta di calcio in giardino che tenersi strette le H del verbo avere e le doppie della sua lingua madre è una cosa importante.
E io invece ne sono proprio sicura, che magari non sarò più qui quando lui davanti a Letterman, (che magari non ci sarà più neanche lui), mi ringrazierà di avergli salvato le H e le doppie.
Ma di certo ci sarei se venisse il giorno in cui si sente a disagio per non saper scrivere la lingua in cui parla.
Non che io pretenda che mio figlio diventi il primo Presidente non nato sul suolo degli Stati Uniti d’America.
Mi accontento che sappia scrivermi una lettera quando sarà lontano per la sua strada. Ma non pretendo che lo capisca ora.