Smartphone in classe?

La ministra Fedeli, a inizio anno, ha espresso il suo placet per l’introduzione degli smartphone in classe. E noi di FQCP ci siamo subito detti, ci facciamo una riflessione?

Visto che la Fedeli aveva fatto questa dichiarazione a “Futura”, ossia un convegno sul tema del Piano Nazionale della Scuola Digitale, ho ficcato il naso nelle 140 pagine del Piano per capire in sostanza, cosa s’intende e come si declina il digitale a scuola. Le premesse sono buone: “Questo Piano non è un semplice dispiegamento di tecnologia: nessun passaggio educativo può infatti prescindere da un’interazione intensiva docente discente e la tecnologia non può distrarsi da questo fondamentale “rapporto umano” (PNSD pg 7 ).

Poiché l’innovazione tecnologica è il cavallo su cui puntare per essere un paese all’avanguardia, le altre restanti pagine sono di fatto un piano strategico per introdurre e implementare l’utilizzo della tecnologia come strumento di supporto didattico, come aiuto organizzativo nella gestione amministrativa della scuola, come possibilità di una migliore interazione tra i diversi attori del mondo scuola e infine come strumento che facilita e migliora l’apprendimento.

In merito all’analisi medium, linguaggio e implicazioni culturali, queste le poche righe dedicate dal PSDN: La scuola italiana non può essere lasciata sola nella costruzione di una posizione sull’Educazione ai Media e sulle implicazioni del digitale: è la nostra società ad averne bisogno. Le ramificazioni sono profonde, e in alcuni casi “competitive” rispetto alle competenze sviluppate dal nostro sistema fino ad ora: pensiamo al rapporto tra calligrafia e fluent typing a tastiera; al rapporto poco documentato tra tecnologie digitali, creatività e creatività manuale; a come (e se) le tecnologie modificano le dinamiche di memoria, attenzione, lettura e costruzione di pensiero. A questo si aggiunge una non facile interpretazione delle dinamiche sociologiche.

Nel mentre facevo ricerche e riflettevo sulla questione, sono arrivate le elezioni. Ora sarà il futuro governo (sempre che ce ne sia uno a breve) ad accollarsi l’eredità della “Buona Scuola” e del PNSD e nulla impedisce che tutto ciò venga rivoluzionato. Resta il fatto che, chiunque arrivi a capo del Ministero dell’Istruzione, debba fare una seria e approfondita riflessione sulle connessioni tra medium, linguaggio, conoscenza e costruzione dell’identità. Se è vero, come dimostrano fior fiore di studi, che lo sviluppo cognitivo passa anche attraverso il linguaggio e che questo modella le nostre mappe cognitive, è lecito pensare che vi sia una forte relazione tra il linguaggio digitale (e il medium che è sempre più il “messaggio”) e lo sviluppo della mente.

Un piano digitale per la scuola, luogo deputato alla conoscenza e alla crescita delle menti, che prenda sottogamba queste connessioni e si proietti sulla rivoluzione digitale senza aver preso in considerazione gli effetti della tecnologia sullo sviluppo cognitivo dei bambini e dei ragazzi (soprattutto quello dei bambini) mi pare scellerato.

I nostri figli sono dei nativi digitali, inutile nasconderlo. La tecnologia, per quanto una famiglia possa essere ligia alle “due ore di esposizione mediatica al giorno”, è ormai parte della loro vita e li condiziona. A scuola, l’utilizzo della LIM è costante; gli approfondimenti sul web sono pane quotidiano; non solo imparano a usare le applicazioni di base, ma molti fanno coding (l’ora del codice, come la chiama mio figlio). I vantaggi di un accesso rapido a informazioni di qualsiasi tipo sono innegabili, come la possibilità di fare una didattica sempre più ipertestuale e collegamenti interdisciplinari. Per non parlare della possibilità di caricare le lezioni su You tube e di poterle rivedere. Tutto positivo allora?

Le ricerche dicono di no*. Non è proprio tutto oro ciò che luccica e i risvolti di un apprendimento multitasking sono, tra gli altri, la mancanza di profondità. A furia di allargare il discorso, si rimane sulla superficie e non riesce ad approfondire, attratti dalle novità continue a portata di mano. Il cervello, tra le tante informazioni di cui dispone grazie alla velocità di ricerca, spesso attuata la lettura selettiva così detta skimming: una lettura orientativa e rapida che ci consente di cercare gli indizi (i frammenti) utili a ricostruire un testo senza però leggerlo tutto. Inoltre, visto che i motori di ricerca suggeriscono cosa cercare, gli utenti si lasciano trascinare dal flusso, a scapito di una ricerca attiva e creativa. L’effetto dell’apertura di tante finestre sul pc, (e di riflesso nella nostra mente), di tanti input che arrivano, è un sovraccarico sul cervello che non solo si stressa (burn out), ma va adattandosi a questa modalità “iperattiva”, reiterandola.

Alcune ricerche americane mostrano che bambini e adolescenti sono sempre più abituati alla concentrazione frammentata; che sono sempre più bisognosi di stimoli e incapaci di gestire la noia. Inoltre, gli studenti a che hanno un dispositivo proprio a scuola (Ipad o smartphone) lo utilizzano non solo per fare ricerca, ma anche per mandare chattare e sbirciare sui social, senza per questo rendersi conto di perdere la concentrazione; anzi, in alcuni studi che ho potuto leggere, i ragazzi si dicevano orgogliosamente “capaci” di questa abilità. Segno che fare tutto in contemporanea, per loro, è la normalità.  Impedirlo, da parte dei docenti, credo sia quasi una missione impossibile. Ed il primo motivo per cui penso che i dispositivi personali non debbano entrare a scuola.

Un altro motivo è che l’utilizzo frequente delle tecnologie da parte dei più giovani (ma in verità questo sta succedendo anche sugli adulti), sta coincidendo con un abbassamento pauroso dei livelli di empatia. La studiosa Sherry Turkle, insegnante di Sociologia della scienza e della tecnologia al MIT di Boston, fu chiamata in una scuola media di New York da un corpo docente allarmato dai comportamenti dei loro ragazzi, sempre meno capaci di conversare tra loro e di mostrare comprensione emotiva verso i loro pari.

Nella sua analisi, che è poi diventata il libro La Conversazione necessaria (di cui consiglio la lettura), la Turkle sottolinea che la conversazione reale è alla base della crescita personale, della fortificazione della propria identità, della capacità di relazionarsi con gli altri e di provare empatia. La conversazione digitale non ha nessuna di queste caratteristiche. Anzi, molti trovano conforto nel rifugiarsi in essa perché nell’agorà virtuale la conversazione è mediata, pensata; vi si teme meno il giudizio, perché ci si considera meno esposti. Mi pare evidente che in classe vada piuttosto incoraggiato il dialogo. Che proprio la scuola debba essere luogo votato alla conversazione, alla costruzione del proprio sé e di un sapere critico che si può ottenere solo imparando a fare e a farsi domande e a provare a dare risposte; e, non per ultimo, ad accettare la diversità di vedute.

Ultima ragione per il no ai dispositivi personali in classe è la questione sicuramente non marginale, dell’accesso ai dati. Che lo si voglia o no, in rete lasciamo tracce. Il recente “scandalo” “Cambridge Analytica”, dimostra (se ancora ci fosse qualche ingenuo che non lo avesse capito) quanto siamo profilati: una questione etica e giuridica che dovrà necessariamente essere affrontata ma, per il momento, in assenza di regole e certezze, credo sia giusto che gli adulti si facciano carico  di proteggere almeno i minori. Un conto è una ricerca insieme con il computer della scuola, un altro conto è una ricerca con un dispositivo personale che mi geo localizza, nei cui banner mi possono comparire la pubblicità delle Adidas ultimo modello o tutte le informazioni che servono per diventare più magri.

Le nuove tecnologie sono parte del nostro mondo; il linguaggio digitale sarà sempre più la nostra lingua. Ma occorre riflettere bene su come tutto questo ci stia cambiando, di quale impatto abbia sulle nostre menti, e raddrizzare il tiro se occorre. E la scuola, ha il dovere di riflettere sul risvolto che le tecnologie possono avere sull’apprendimento, la crescita e lo sviluppo cognitivo dei bambini e dei ragazzi.

 

*Molte informazioni che riporto sono state prese da La Conversazione Necessaria di Sherry Turkle

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