Questo post è il lato oscuro di quello di ieri.
E viste le reazioni più numerose e calorose di come mi aspettassi, credo che d’ora in poi ritaglierò qui uno spazio regolare per parlare di expat.
Me l’avevano sconsigliato, può dare fastidio mi dicevano.
Ma io credo sia una storia che vada raccontata.
Che emigrare in famiglia sia un tema sempre più attuale.
E fare i genitori di figli che parlano altre lingue sia una sfida.
Ora dopo quasi due anni ne posso parlare.
Posso essere utile a qualcuno che sta partendo.
Condividere sguardi e punti di vista con chi resta.
Raccogliere storie di come me cresce i suoi figli lontano da casa.
Faccio Quello Che Posso non cambia, aggiungo solo un angolino, ogni settimana o due, per storie da lontano e pensieri in viaggio.
Quindi comincio togliendomi i sassolini dalle scarpe, che poi è tutto in discesa e possiamo passare ai consigli utili.
Cari amici che restate e infierite,
Quando sono partita con il cuore infranto, mi avete dato il colpo di grazia.
Mi aspettavo la nostalgia, ero attrezzata per la solitudine, conoscevo le difficoltà linguistiche.
Quello che non sapevo è che qualcuno ci avrebbe tagliati fuori, chiuso la porta in faccia, inveito contro quelli che abbandonano, quelli che scelgono la comoda sponda straniera.
Non me l’aspettavo e mi ha ferita come un tradimento. O forse di più.
Perché implicitamente, ma non troppo, ero io che venivo accusata di aver tradito.
Io che ho sempre cercato di fare del mio meglio, che crescere delle brave persone è il sottotitolo del mio libro.
Che lavorare per il pubblico è sempre meglio che per il privato, perché si guadagna meno, ma si contribuisce alla comunità.
Che impegno, ricerca, insegnamento, sono i semi di un buon futuro, e sta a noi coltivarli.
Che se una persona lavora per noi le dobbiamo farle un contratto e pagarle uno stipendio degno del suo valore, anche se significa non prendere il nostro di stipendio e dare alla giovane collaboratrice, e alla signora delle pulizie, più di quanto mettiamo in tasca per noi.
Io che ho tirato per i capelli una situazione surreale, che faceva inorridire qualsiasi commercialista, continuando ad abitare nel paese con più tasse e meno servizi e a lavorare nel paese con trasporti e affitti più cari. Prendevo il peggio dai due paesi, e lo facevo per amore della mia terra, per non mollare.
Perché non potevo immaginare di crescere altrove i miei figli. Perché volevo trasmettere loro l’importanza dell’impegno civile.
Perché senza impegno non sono io.
Beh, sapete una cosa?
Sto crescendo i miei figli tra due paesi.
E questo non è semplice impegno civile, non è dare il mio contributo per tenere insieme i pezzi, come fare il mercatino per pagare la carta igienica della scuola, questa è vera e propria innovazione sociale.
Nel mio micro cosmo e nel tempo di meno di due anni, ho prodotto tre individui a cui non devo spiegare quanto sia difficile lasciare la propria terra. Loro lo sanno.
E se vedono gente su un gommone, pensano che almeno loro hanno avuto la fortuna di partire in auto.
Non devo raccontare loro che fatica sia farsi capire in un’altra lingua. Lo sperimentano tutti i giorni. E le lingue diventano due o tre, ma non passano mai dalla loro prima, quella si parla a casa.
Non devo descrivere come ci si sente ad essere l’immigrato, il diverso, lo straniero, l’ultimo arrivato. Sono loro. E quando una cosa la provi sulla tua pelle, te la ricordi per sempre.
Non ho bisogno di convincerli che tutti possono ricominciare e inventarsi una nuova vita. Lo stanno facendo con le loro giovani forze. Poi, con le competenze che stanno sviluppando potranno fare qualunque cosa, ovunque.
Non serve dire loro che i confini non fermano il cuore, perché il loro è già internazionale.
Non devo prepararli a partire per seguire i loro sogni. Sono già partiti. Possono continuare a farlo, o scegliere dove tornare. E sapranno guardare a ogni paese con la prospettiva più aperta.
E quando parlo dell’Italia, non ho bisogno di raccontare molto. Perché torniamo spesso e guardiamo il TG.
Perché lo hanno scoperto da soli, qui, che la scuola pubblica può avere sapone e carta igienica, ma anche matite, pennarelli, pitture, computer, palestre, laboratori, settimane bianche, corsi di sostegno linguistico. E che più della metà di allievi stranieri non sono un problema, ma un cambiamento di cui occuparsi, con competenza, risorse, preparazione, e un po’ di buon cuore.
Si chiedono solo come mai in Italia non sia così. Come mai?
E non me la posso cavare rispondendo che è un paese più povero, perché li vedono anche loro i ristoranti sempre pieni, i negozi che si rinnovano ogni volta che torniamo, le macchine scintillanti, le vetrine meravigliose, le persone eleganti, phonate e griffate, i loro coetanei con telefono, bici, e motorino, nuovi ad ogni promozione. E cominciano a capire cosa vuol dire: Scontrino, fattura o sconto?
E allora tutti insieme parliamo di come ogni volta ci sembri di ballare sulla prua del Titanic. Come sia bello tornare a casa nelle vacanze, come ci manchi il nostro paesaggio, la casa, gli amici, il cibo.
Ma come sappiamo che la pensione non ci sarà per noi, ma soprattuto per loro, per non parlare del lavoro per tutti, delle scuole accoglienti, delle tasse adeguate a una famiglia con tre figli.
Ogni volta che torniamo, non ci possono raccontare bubbole su quali sono le cose che contano per vivere bene.
La carta igienica a scuola è una di quelle, ora lo sappiamo, e vogliamo anche tutto il resto. Sappiamo che è possibile, anche in Italia.
Facendo avanti e indietro dalle Alpi, possiamo portare questo nuovo sguardo al nostro paese, possiamo raccontare una nuova cittadinanza e condividere molte lingue, potremmo davvero cambiare le cose.
E ora sono sicura che ce ne sia bisogno.
Sarebbe bello farlo per mano a chi non è partito.
Tornare a farsi le domande semplici.
E cercare le risposte un po’ al di là dei propri confini.
Ma voi ci state?