Sono cresciuta senza possibilità.
I miei avevano lasciato l’Italia all’inizio degli anni ’60. Entrambi provenivano da regioni povere: dal profondo sud mio padre. Dal veneto mia madre. Ed erano partiti con valigie di sogni e l’idea che hanno tutti i migranti: tornare.
Per coronare quel sogno hanno speso la loro giovinezza in Svizzera, risparmiando su tutto.
Non ho mai avuto il vestito desiderato, ma sempre quello meno costoso. Mia sorella ereditava i miei vestiti. I miei hanno detto di no ai corsi di danza e di musica.
Non mi hanno mai portato in vacanza, ché le vacanze erano il ritorno dai nonni e poi c’era da lavorare nella casa lasciata in Irpinia, ancora mezza da costruire.
Non ho ricordi di gite, se non le passeggiate nei boschi del paese, le kermesse dell’associazione italiani e le gite a Berna dai miei zii.
Ho visto per la prima volta il mare a otto anni, mi ci ha portato la zia.
Non dico questo per rimproverare i miei genitori: hanno fatto quello che potevano, scegliendo quello che per loro era bene: fare economia per tornare in patria.
Quando sei povero e sei figlio di mezzadro (ovvero più povero di un contadino) e non sei andato a scuola se non per imparare a scrivere il tuo nome e cognome, la terra rimane il tuo unico orizzonte; la pagina dove scrivere delle tue speranze.
Pensavo a questo, quando l’altro giorno mi hanno detto: ho provato a volantinare davanti a scuola, ma sai, tutti quegli stranieri non sono interessati ai corso di…
Ho pensato che non è questione di interesse, ma di problematiche che attengono alle economie famigliari, alla cultura, all’integrazione. Ho pensato a quanti bambini vorrebbero e non possono. E quanto potremmo fare per dare loro una possibilità. Senza liquidare con un “non sono interessati”. Perché:
“I bambini hanno diritto ad avere un sistema integrato tra scuola e istituzioni artistiche e culturali, perché solo un’osmosi continua può offrire una cultura viva.”
Carta dei Diritti dei Bambini all’Arte e alla Cultura, Art. 10