I lati oscuri della maternità

La prima volta, la maternità è arrivata per caso. Avevo appena smesso di essere figlia; non proprio. A essere precisi ero una figlia, orfana, e incazzata con suo padre. Perché, come sempre, aveva avuto l’ultima parola. E non era per me. Se n’era andato così, lasciandomi da sola a sbrogliarmi tutti i casini di una relazione complessa.

Non ci pensavo ad essere madre. Io volevo essere figlia, ancora figlia; non avere un figlio. Certo, ci avevo pensato. Nei mesi precedenti al nero. Poi il dolore s’era mangiato i sogni di futuro. Mi rimanevano occhi solo per guardare indietro, allo sfacelo di anni a cui mai più avrei potuto porre rimedio.

Invece è successo. Così, avevo un altro motivo per stare male: da subito ho capito che non sarei stata capace. Il mio corpo ha vissuto la sua splendida maternità: nausee giuste, chili troppi, ipertensione sotto controllo, raccogli la pipì, gonfia troppo gonfia, le mani che s’addormentano; tu sempre sveglia. A sei mesi resto a casa da lavoro. Fine del contratto a tempo determinato. Passo le giornate sul divano in silenzio. Sento la carpa che sguazza. Ma sì, ci facciamo compagnia.

-Lo so che mi vorresti diversa.

-È la prima volta che ti sento parlare.

– Non ti abituare.

Quando l’ho preso in braccio la prima volta, mi è sembrato una carpa aliena. Rugosa e rossa. L’ho attaccato al seno. Pensaci tu, gli ho detto. Che io non so.

Quando non ciucciava, piangevamo. Ché insieme al latte erano montate tutte le lacrime di scorta. Mi nascondevo da mia madre e da suo padre. E da tutti quelli che essere felici è un dovere.

Una sera, l’ho portato da mia madre e le ho detto: tienilo. Non mi vuole bene.

Mi rivedo ancora. Le do la carpa piangente. Lei mi guarda attonita. Io mi giro e me ne vado. Mi rivedo: sono io. Non mi pare possibile. Ma sono io, fuori da me. O dentro una me sconosciuta. Dentro il corpo di una figliamadredonna, chi cazzo sono, non lo so più. Vorrei partorirmi e darmi pace.

 

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