Lunedì 1 giugno 2015 in Svizzera c’era un bel sole.
In Italia si approfittava del ponte per la Festa della Repubblica per una prima scappata al mare.
Noi avevamo dormito – accampati sul pavimento della piccola, bellissima, casa che mio marito aveva affittato due anni prima nella città vecchia di Ginevra, quando aveva cominciato a insegnare al Politecnico di Losanna- e ci stavamo preparando per un incontro importante.
Solo un mese prima avevamo deciso che saremmo emigrati, io tra le lacrime avevo trovato una fotografia formato francobollo di una casetta in affitto e avevo detto: Se riesci a prendere questa, io vengo. Poi avevo assillato al telefono mio marito tutti i giorni per una settimana fino a che non aveva ottenuto l’appuntamento con l’agenzia. Pare che già sulla abbia detto: “Va bene, la prendiamo”, ” Ma non vuole parlarne con sua moglie?”, ” Va bene anche a mia moglie.”
La casetta che ci avrebbe accolti per tre anni, si sarebbe liberata solo a giugno, così in quell’ultimo weekend di maggio avevamo potuto vederla solo da fuori e apprezzare il rinomato calore svizzero di una vicina che ci aveva morsi, vedendoci sbirciare il giardino.
Ma l’appuntamento importante era un altro.
Mentre mio marito assillava l’agenzia immobiliare, io avevo fatto lo stesso con maestre e professori e segreteria scolastica dei nostri ragazzi ed avevo ottenuto una preziosa copia in anticipo delle loro pagelle che sarebbero state ufficiali solo la settimana successiva.
Con quelle i nostri dossier erano completi e potevamo incontrare i tre doyens delle nostre future scuole.
La visita guidata era andata molto bene, le strutture erano pazzesche, palestre, campi da gioco, laboratori di scienze, arte, cucito, cucina, falegnameria, musica. Era tutto talmente bello che mio figlio maggiore aveva chiesto: “Ma è una scuola privata vero?”. E alla risposta negativa si era lasciato scappare il primo sorriso a rompere il broncio in cui si erano trincerati tutti e tre alla notizia della prossima emigrazione.
In realtà la scuola era una sola, diverse sedi e diversi responsabili per ciascun ciclo di due anni di studio. Sopra tutti, lui, il terrificante Monsieur Z, il direttore.
Ed era con lui che nel pomeriggio, dopo aver visitato le strutture e conosciuto gli insegnanti, avremmo avuto l’incontro decisivo, quello in cui ci avrebbe comunicato l’enclassement, ovvero cosa sarebbe stato riconosciuto del percorso scolastico italiano e in quale classe i miei ragazzi sarebbero stati inseriti.
Saremmo entrati da soli, i ragazzi dovevano aspettarci fuori, sul bel campo da gioco vista lago.
Ero preoccupata, a disagio, mi vergognavo del mio francese di pochi mesi. Anche se poco prima la vicepreside mi aveva lusingata, dicendo che se i miei figli avevano preso da me e avessero imparato così in fretta, non avrebbero avuto nessun problema. Io non mi sentivo attrezzata per affrontare un incontro così decisivo. Ma al petto stringevo loro: le tre brillanti pagelle dei miei bravi scolari – da allora non se ne sono più viste di simili-.
Da qui in poi il racconto sfuma nella leggenda, uno di quegli sketch che temo verranno raccontati anche ai miei nipoti. A sentire mio marito pare che alla notizia che il mio piccolo avrebbe dovuto ripetere la prima elementare, le pagelle si siano trasformate in armi pericolose e che io le abbia appoggiate sulla scrivania come in una scena del Padrino, dicendo con forte accento meridionale:
” Monsieur, mais avez-vous regardé les bulletins?!” Sventolando la sfilza di dieci del mio terzogenito, mentre mordevo alla giugulare il Direttore.
A questa parte non voglio credere, diciamo solo che mio figlio è stato iscritto direttamente in seconda.
E che mesi dopo sono stata io ad aver bisogno degli originali dei miei diplomi, volevano le pergamene, per controllare che fosse tutto vero.
Diciamo che noi siamo emigrati sul tappeto rosso, ma che anche così non è stato facile, non lo è tutt’ora. E strette al petto avevamo le nostre pagelle, il documento più importante che abbiamo portato con noi.