L’arte di rallentare io non so cosa sia. Sono sempre sommersa, travolta, pressata. Sempre “nel tritacarne”, come dico ai miei amici quando mi telefonano. È una condizione interiore, che io vivo come se fosse oggettiva, assoluta, proveniente “da fuori”, senza scampo. E invece.
Invece, non è così. Visto che da sola non lo capivo, la vita non ha potuto che mandarmi degli avvertimenti, più o meno gradevoli.
La prima volta è stata una varicella in forma leggera, che mi sono presa qualche anno fa dai miei bambini. Sono bastati 10 giorni a casa, tranquilla, a indurmi a dare le dimissioni e trasformarmi in un’affaticata ma felice free lance.
Poi il bellissimo libro di Teresa Monestiroli, Adagio urbano, che, oltre a regalarmi un’amica, mi ha aperto una finestra sul mondo, facendomi capire che questo desiderio di andare più piano è condiviso da molti.
L’anno scorso, la rottura di un piede di mia figlia, il 4 di agosto. Gesso per 40 giorni. Niente viaggio, niente Grecia. Dispiacere, dolore, sconforto, preoccupazione. Ma anche due settimane di calma, in campagna, a fare ordine, chiacchierare con lei, ascoltare le sue storie, giocare a monopoli.
E infine, tre giorni fa, uno streptococco improvviso: niente gita a Firenze. Solo cluedo, stratego, ritorno al futuro. E le prime basi, sulla chitarra, del giro di do.
È mai possibile che serva un “accidente” per farmi fermare? O che lo debba leggere in un libro, o vedere in un film, per crederci davvero?
Come tutte le arti, anche questa implica allenamento. Un’amica mi consiglia di cominciare dal poco: un piccolo grande tempo, ogni giorno, dedicato a loro, a me, a noi. Imparare a rallentare con gioia, attenzione e curiosità. E stare a vedere cosa succede.