La cittadinanza e la lingua

La cittadinanza è un diritto (che implica dei doveri). Non è un merito. Se così fosse, per demerito potrebbe essere tolta a chi non rispetta la Costituzione, a chi deruba lo Stato, a chi nega i diritti. Ma così non è.

In questi giorni assistiamo a un teatrino ignobile, giocato sulla pelle di ragazzi che saranno, non dimentichiamolo, cittadini di questo Paese tra pochi anni (in Italia, al raggiungimento della maggiore età si può chiedere la cittadinanza).

Riposto qui di seguito una riflessione in merito al diritto di essere cittadini dello stato in cui si nasce e si cresce. Ho riascoltato una delle telefonate dei ragazzi dal bus dirottato, quella di Adam alla sua mamma. Lui, in preda al panico le chiede aiuto, le racconta tutto quello che sta succedendo in italiano. Lei le risponde in arabo. Lui seguita a usare, nella paura, la sua lingua: l’italiano. Questo non fa che confermare quello che penso da sempre: se dobbiamo parlare di diritti, invece di parlare di Ius Soli dovremmo parlare di Ius Linguae.

Io sono bilingue dalla nascita. I miei genitori mi parlavano in francese (anche se non lo conoscevano benissimo) e in italiano. Ricordo molto bene che, mentre ero in grado di passare facilmente da una lingua all’altra, usando a volte termini di una nell’altra, il mio pensiero interno era invece mono lingua: ragionavo in francese. La lingua del mio contesto.

Quando ci trasferimmo, il mio ragionamento in francese perdurò per un certo periodo di tempo. Fin quando, senza nemmeno rendermi conto, il francese fece posto all’italiano. Oggi, pur ricordando assai bene la lingua francese, non mi verrebbe mai in mente di pensare in quella lingua; sebbene ogni tanto si affacci alla mente qualche termine che lì è meglio connotato.

Non conosco tutti i meccanismi della formazione del linguaggio, ma sono certa che i bambini che hanno genitori stranieri, ad un certo punto, diventano perfettamente bilingui. Come sono certa che la lingua che sottende i loro pensieri, sia  (come accadeva a me) quella del Paese dove vivono e in cui sono socialmente immersi.

La lingua è un fatto culturale, ma è anche uno strumento attraverso il quale conosciamo la realtà: la stretta connessione tra linguaggio e sviluppo del pensiero è teoria affascinante e su cui non vi è nessun dubbio. Anzi, il terreno di studio su questa correlazione è apertissimo. L’influenza sul nostro modo di pensare, sul nostro modo di esperire la realtà è plasmata dal linguaggio; è come se questo ci fornisse un’architettura su cui poggiare i pensieri. Quando ascolto persone che conosco parlare la loro lingua madre, osservo una trasformazione: la voce si modifica, sul viso si attivano muscoli diversi, anche lo sguardo pare cambiare.

Alcune ricerche hanno dimostrato che la lingua è poi connessa anche alle emozioni e condiziona l’aspetto etico. In questa ricerca, pubblicata su Plus One (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0094842) viene evidenziato quanto la lingua madre agisca sulla costruzione delle regole morali. I test effettuati duranti gli studi hanno dimostrato che le persone che rispondono a domande etiche, in una lingua che non è la loro, fanno scelte maggiormente utilitaristiche, rispetto a quando rispondono nella loro lingua madre. Semplificando, la lingua madre ha strutture profonde e comprende nella sua sfera l’empatia, l’emotività, le regole morali.

L’identità di un popolo è legata alla sua lingua. Nulla caratterizza di più un italiano dal fatto che parli italiano. La lingua, quella in cui uno è immerso, quella che ti fa ragionare, quella che ti fa dire: ti amo, ti odio e vaffa; la lingua che studi e che opponi in risposta ai tuoi che ne parlano un’altra; la lingua che ti fa crescere e a cui dai il tuo tributo di parlante; la lingua, al di sopra di tutto, ti rende cittadino. Nel nostro paese, un cittadino italiano.

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