Oggi è una giornata un po’ particolare, e io e Giuliana abbiamo deciso di scrivere insieme, su entrambi i nostri blog, qualcosa delle nostre storie, diverse, ma tanto vicine, perché spartiacque delle nostre vite e di quelle intorno a noi. Le tre settimane che ci separano, sono tutto ma anche niente.
Grazie Giuliana per avermi regalato un pezzetto di emozioni e avermi ospitata da te.
Giuliana:
Anche quest’anno siamo qui, alla Giornata Mondiale della Prematurità. Avendo un blog e un bambino prematuro, nato di 26 settimane, mi sento quasi obbligata a scrivere un post e ho anche un po’ paura di essere ripetitiva. Ma invece ogni anno accade qualcosa per cui scrivo, penso e sento cose nuove.
E oggi mi ritrovo con un pensiero triste e tante domande inutili, come quelle che cercano ostinatamente di dare un senso a vicende, storie e strade che, forse, non ne hanno.
Le mamme di bambini prematuri non sono solo quelle che, come me, hanno trascorso lunghi mesi in una terapia intensiva neonatale, con il cuore in gola, ogni giorno, senza tregua, accanto al proprio piccolo. E che poi, come me, sono tornate a casa, un po’ ammaccate, diverse, più forti e anche più fragili, ma con il proprio bambino.
Ci sono anche le mamme che da quella Tin sono uscite sole o quelle che fino al reparto dove i piccolissimi lottano strenuamente non sono mai arrivate. E la loro maternità e il loro bambino si sono consumati così, in un soffio. Un istante al quale è difficile dare un senso. Un dolore che leva il fiato anche solo a immaginarlo.
E allora, in questi anni, accanto al senso di colpa che mi ha sempre accompagnato per non essere riuscita a portare a termine un compito così essenziale come quello di mettere al mondo un bambino sano dopo 40 settimane di gestazione, ho maturato il senso di colpa rispetto a tutte quelle mamme che di certo non meritavano meno di me e che il loro bambino non hanno potuto stringerlo o hanno potuto stringerlo per troppo poco.
Se per me la nascita del mio bambino ha avuto il senso di uno spartiacque nella mia vita, il significato di segnare un “prima” e un “dopo”, in cui mi sento una donna migliore, rimango sgomenta nel pensare a storie diverse, come quella di Alessandra. Ale che è spuntata così, in questo mare virtuale che ci ha in qualche modo fatte trovare, con tanti punti in comune, storie simili, pensieri simili, figli, blog e gatti.
Sono stata fortunata per mille motivi, perché il mio bambino l’ho avuto solo cinque anni fa e non venti, e la neonatologia ha fatto passi da gigante. Sono stata fortunata perché sia dai ginecologi che poi in terapia intensiva ho trovato tanta umanità, tanto sostegno oltreché una professionalità fuori dal comune. Sono stata fortunata perché un giorno, dopo tanto lottare, mi sono portata a casa il mio bambino e ora, mentre scrivo, se ne dorme di là, con suo fratello, abbracciando un orribile elefantino dal pelo ispido che mi portò mio nonno dall’Egitto una quarantina di anni fa.
Sono stata fortunata perché Ale mi ha trovato prima in questo spazio virtuale e poi davanti alla scuola, davanti al nostro caffè, e mi ha ricordato tutte mille cose che non voglio scordare mai.
Alessandra:
Il 17 novembre 2008 è stata celebrata per la prima volta in Europa la giornata mondiale della prematurità.
Il 17 novembre mio figlio maggiore compie 15 anni.
Il 2008 è l’anno di nascita di mio figlio minore.
In mezzo loro sorella.
Prima di tutti il fratello che non c’è.
Ne avrebbe appena compiuti diciannove di anni, e ancora mi manca, quasi ogni giorno.
Sopravvivere al proprio bambino non è naturale.
Farlo nascere troppo presto ti cambia la vita per sempre.
Che lui ce la faccia o no, ti mette addosso una responsabilità che entra nella carne, c’è poco da essere razionali.
Ci si può lavorare, andare avanti, gioire di quello che c’è.
Ma ogni volta che ci pensi, sai che poche settimane hanno cambiato il destino di tutti. E al centro c’era il tuo corpo, che per quanto abbia lottato non è arrivato proprio al traguardo, ha ceduto solo un pochino prima. Difficile non darsi la colpa.
Poi però si impara a vivere, ad accettarsi, anche a volersi bene.
La vita è dalla nostra, se appena appena la ascoltiamo, ci manda dei segnali portentosi.
A me ha mandato queste coincidenze, il 17/11, il 2008, un bambino se ne va, altri due ne arrivano e addirittura una bambina in mezzo, per voltar pagina.
Poi in questi diciannove anni, mi ha dato degli incontri speciali, che mi fanno pensare che niente capita per caso.
Ho trovato Giuliana nella rete, ma solo perché io mi ero appena allontanata dal mio quartiere. Perché lei era lì, i suoi bambini sono appena più piccoli, hanno preso il posto lasciato libero dai miei, nel nostro asilo, nella nostra scuola.
E lei è passata per la mia stessa strada.
Ma lei ce l’ha fatta.
E ne ha scritto, benissimo, qui.
Ed è stato bellissimo piangere insieme nella tazza del caffè.
La cosa più stupefacente è che le emozioni sono le stesse, anche se le nostre storie hanno una fine così diversa.
Non ho pensato per un secondo che fosse stata più fortunata, solo che in quindici anni, per fortuna, la scienza ha fatto progressi.
E che è una gioia vedere il suo bambino camminarle per mano.
Quando lei racconta del fastidio per la superficialità delle parole di chi sta intorno, io so cosa sta dicendo.
Davvero cambia poco che per me fosse la commessa che entrava in stanza accendendo la luce e urlando: Come mai qui non c’è il fiocco? ,
o la parente che con tutte le buone intenzioni ti dice di non piangere che sei giovane e di bambini ne verranno tanti altri.
E che per Giuliana fosse qualcuno che si permetteva di dirle che basta la pazienza.
Non basta la pazienza, non solo, ci vogliono davvero professionalità, competenza, molta fortuna, e la capacità di accogliere e sostenere quel groviglio di emozioni che tiene insieme una mamma e il suo bambino.
Io spero che anche in questo siano stati fatti dei passi avanti e voglio illudermi che anche questo conti nella storia di Giuliana.
Che il protocollo sulla violenza ostetrica valga per tutti i casi e sia applicato ovunque. Che il personale che si avvicina a una puerpera sia sempre più un sostegno e sempre meno a un meccanico.
Che nello stesso ospedale non lavori più l’infermiera che si è permessa di dire alla sua collega, davanti a me che ancora non avevo capito e speravo: lo mettiamo nel sacchetto?