Questo mese mio figlio maggiore deve allenarsi a discutere in inglese di argomenti di attualità.
Così la sera, quando ne abbiamo la forza, prendiamo un articolo e proviamo a parlarne un po’.
All’inizio lui bofonchia, sa che gli sto facendo un favore, ma è stanco, torna da scuola alle sei e non vorrebbe far nulla. E io preferirei allenare il mio inglese guardando qualche serie tv.
L’occhio cade spesso sul telefonino e io mi scoccio.
Così ieri quando mi è capitato questo post canadese sugli effetti dannosi della dipendenza da smartphone mi è sembrato perfetto per affrontare la questione da un punto di vista più ampio e trasformare il conflitto in occasione di crescita.
Già il titolo è perfetto, “Lo smartphone ti sta rendendo stupido, asociale e insano. Perché non riesci a metterlo giù?” e con ottime illustrazioni e precisi riferimenti scientifici spiega le ragioni neurologiche dietro la dipendenza smartphone, che poi sono le stesse del gioco d’azzardo e della droga.
Racconta come i progettisti di app studino proprio i cicli della dopamina, l’ormone della soddisfazione immediata e a breve termine, per inventare diavolerie come le notifiche push.
Dimostra, dati di Harvard alla mano, come ormai sappiamo che i sintomi della dipendenza da schermo sono identici a quelli da deficit di attenzione, e gli effetti sulla nostra capacità di concentrazione sono tali da averci ridotto in dieci anni allo stesso livello di un pesce rosso.
Per questo a Silicon Valley c’è un’ondata di pentimenti.
Persone importanti, ex dirigenti di Google, e di Facebook hanno fatto coming out, si dichiarano dispiaciuti, “avremmo dovuto saperlo che sarebbe successo qualcosa di male”, e come Tristan Harris si attivano in campagne quali Time well spent , tempo speso bene, per arrestare quella che chiamano digital attention crisis e riallineare le tecnologie con il bene dell’umanità.
Quindi se lo dicono anche loro, ci siamo chiesti io e il mio ragazzo, cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo?
Secondo lui basterebbe abolire le notifiche, così una volta al giorno quando decidi controlli posta e messaggi e finita lì.
Il problema però, dice, è che lo devono fare tutti, altrimenti se sei l’unico che non risponde subito, fai una figuraccia finisci escluso.
E poi non sono solo male, sostiene, lui senza non avrebbe potuto mantenere i contatti con tanti amici lasciati in Italia, e non basta mandare il messaggino quando arrivi in vacanza.
Comunque siamo partiti dall’ammissione di essere tutti in famiglia più o meno dipendenti, anche la nonna che secondo le statistiche canadesi dovrebbe esserne esente.
Ma partire con un’assoluzione è stato liberatorio.
In fondo siamo solo vittime di un sistema progettatto a suon di milioni perché noi diventassimo dipendenti. Come non essere distratti da un aggeggio che nella nostra tasca si illumina, brilla, vibra, bippa, suona, ogni cinque minuti?!
Poi nell’adolescente è scattato il sano senso di ribellione, fuck the sistem, e ha deciso tanto per cominciare, che appena potrà permetterselo uscirà dal monopolio della mela, perché lui è cittadino del mondo e ha bisogno di un telefono dual sim, almeno una italiana e una svizzera, poi chissà.
Abbiamo pensato di trovare un sistema per contare le volte che guardiamo il telefono in un giorno, e magari controllare il tempo totale di schermo in una giornata. L’articolo dice che a questo ritmo alla fine della nostra vita rischiamo di aver passato sette anni davanti a uno smartphone.
Era tardi, ma abbiamo deciso di continuare la discussione e trovare un nostro metodo anti sistema.
Io intanto ho il metodo del gatto, difficile restare incollati a uno schermo con un felino che passeggia sulla tastiera e ti si struscia sul naso facendo le fusa. Non è esattamente scientifico, ma efficace, ogni dieci minuti mi riporta a una vita fatta di morbido pelo e richiesta d’attenzione.
Col mio ragazzo poi ci siamo ricordati, di quando a tre anni per il compleanno aveva chiesto un’aereo con le luci. Una mia carissima amica, psicologa, gli aveva regalato un aggeggio infernale, enorme, che ruotava su se stesso, emetteva dieci suoni di allarme diversi, rombo di motore, prima di partire come una scheggia per il corridoio. Gli smartphone non esistevano, e lui era stato entusiasta di quel baraccone. Io avevo minacciato la mia amica di toglierle il saluto, e poi avevo aspettato la liberazione. Una tale meraviglia ciucciava un sacco di batterie, e non sempre una mamma si ricorda di comperarle, allora magari si legge una storia.
Ci siamo chiesti se con gli smartphone non potessimo fare altrettanto, ogni tanto lasciare che si scarichino e vedere l’effetto che fa.
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