Ho sempre pensato di essere una persona puntuale. Anzi. Il ritardo mi mette ansia. Mi ritrovo a cinque anni dimenticata da mio padre all’asilo, gli altri bambini tutti a casa con la mamma, io lì con la bidella impaziente di chiudere, si fa buio e nessuno arriva. A sei anni mi ha dato le chiavi di casa, e io da quel momento ho sempre cercato di arrivare in anticipo.
Fino al liceo sono arrivata a scuola quando il portone non era ancora aperto.
Poi ho avuto una breve fase di ribellione: sfidare il tempo in bicicletta sulla circonvallazione, per arrivare prima che il custode chiudesse il cancello, salire le scale trafelata, entrare in classe coi capelli arruffati, in mano il cestino della bici con dentro libri e quaderni, è la più grande libertà che mi sia concessa. È durata lo spazio dell’adolescenza, poi di nuovo in anticipo.
Le uscite coi miei figli il mattino sono sempre state piuttosto epiche, tutti in piedi un’ora prima, abbondante colazione, grembiuli, cartelle, merende, trecce ben tirate per scongiurare i pidocchi, cappelli, sciarpe, guanti sempre dispari, sacchette per ginnastica, avvisi da firmare all’ultimo minuto, nasi da soffiare, e poi giù tutti per quattro piani di scale e un chilometro a piedi, passeggino, monopattino, bici, fino a scuola.
Svoltato l’angolo si scorgeva il campanile, si controllava l’ora e si regolava il passo. C’era sempre un punto di non ritorno, l’incrocio davanti alla chiesa, lì non si faceva più in tempo a tornare indietro e si poteva star certi che sarebbe arrivato il temuto acquazzone, se non avevamo l’ombrello, o ci saremmo accorti di aver scordato il libro da restituire in biblioteca, ma non si poteva arrivare in ritardo.
Così procedevo sotto la pioggia, incitando i miei prodi, come sulle spiagge della Normandia: – ancora un metro, forza ragazzi che ce la facciamo! E alla fine, come ogni giorno, eravamo in orario.
Poi siamo emigrati.
Qui in Svizzera, la puntualità è un precetto, e noi ci siamo ritrovati addosso tutti, ma proprio tutti, i peggiori stereotipi sugli italiani.
Il fatto è che non si tratta solo di arrivare in orario al suono della campanella. Quello è più facile che in Italia, la scuola è a quattro minuti da casa, i bambini ci vanno da soli, dalla finestra si vede il campanile che segna l’ora, l’autobus per le superiori ferma di fronte alla nostra porta e, manco a dirlo, è sempre puntuale.
Questo è un vero e proprio sistema costruito per verificare la puntualità, una corsa a ostacoli, forse un videogioco, e io perdo punti da tutte le parti.
Qui per qualsiasi cosa è prevista un’iscrizione, da fare in anticipo – molto in anticipo- su modulo cartaceo, che di solito arriva per posta.
Al campo di calcio della fine d’agosto bisogna iscriversi entro il quindici di marzo e pagare un bollettino. Al campo scout di quest’estate bisogna aderire adesso, la quota è solo indicativa, seguiranno istruzioni – tre figli, tre campi, tre istruzioni diverse -.
In questi giorni bisogna anche scegliere la materia opzionale per la scuola dell’anno prossimo, ovviamente compilando un apposito modulo. Confermare la gita di classe in Italia di fine mese, questa almeno ha dei tempi a me più comprensibili. E poi c’è il weekend di sci scout delle esploratrici, la giornata Porta un amico, dei lupetti, il campo estivo di scherma: – ma come tu non partecipi?
Anche se tutti i moduli fossero nella mia lingua, sarebbe comunque troppo, e così perdo colpi.
Con immenso dispiacere di tutti, stavolta a farne le spese è il più piccolo. Fra due settimane c’è la sua prima uscita scout, un fine settimana nella neve, e bisognava iscriversi, in anticipo, con un modulo. Io l’ho fatto due giorni in ritardo e ci hanno detto di no. Ho il magone da ieri sera, lui di più.
So perché mi sono dimenticata, sono abituata agli scout italiani dove devi avvisare se non partecipi, altrimenti sono tutti compresi.
Ma qui è un altro Paese, un altro sistema.
Alle superiori nell’ora di geografia studiano le disparità nel mondo e proiettano un video sul lavoro minorile. Si vede, tra gli altri, un bambino napoletano, che mantiene la famiglia vendendo caffè per strada. Il commentatore spiega che l’economia italiana è sostenuta dal lavoro minorile.
Questo è quello che dicono di noi a scuola e io mi dimentico i moduli.
PS. Anche gli scout svizzeri hanno un cuore. Mentre finivo di scrivere, mi è arrivato un messaggio dei capi branco che avevano deciso di fare un’eccezione per noi, poveri italiani, che ancora non ci sappiamo organizzare coi moduli. Quindi è salvo il weekend dei lupetti! Non posso dire altrettanto della mia immagine.