Quando si tratta di fare i genitori, a volte ci poniamo dei problemi, inutili.
Credo che provare ansia, una volta che ci siano al mondo delle creature a cui teniamo più che a noi stessi, sia inevitabile.
La cosa di cui non mi capacito ancora è la nostra abilità nel trasformare l’ansia -emozione comprensibile e con una sua dignità- in problemi seri, con credibili argomenti e prove a sostegno della loro problematicità.
Capita a tutti, o almeno io non ho ancora incontrato un genitore che non mi argomenti sulla serietà di questa o quella difficoltà logistica, scolastica, relazionale, mentre io ascoltando col cuore, sento che mi sta parlando della sua ansia nel non potere controllare il futuro prossimo o remoto di suo figlio.
Certo non poter sapere fa paura, ma pensare di poter controllare è inutile, tempo perso.
I ragazzi sono il futuro, e noi, dal momento in cui nascono, siamo già un po’ passatelli.
Se fossimo capaci di accettare l’ignoto, per quello che è, come sarebbe tutto più facile!
Eppure ci affanniamo a vedere problemi, e se non ne vediamo, mettiamo tutta la nostra intelligenza per immaginarne di possibili all’orizzonte, come se andando avanti a battere il sentiero, girando ogni sasso per scovare problemi nascosti, potremo evitare che i nostri figli ne incontrino sulla loro via.
Bizzarre creature siamo noi genitori del Duemila, per cui la scelta di una scuola elementare diventa affare di Stato, ma a noi chi ce l’ha scelta la scuola a sei anni? (A me il bacino d’utenza e poche storie.) E lo sport pomeridiano? E una volta scelta la scuola quale classe? E dove festeggiamo il compleanno?
Quando quasi un anno fa ho deciso che finalmente avrei seguito in Svizzera mio marito, che da quindici anni faceva il pendolare in giro per l’Europa e non se ne poteva più, l’ansia è andata istantaneamente alle stelle.
A voler cercare problemi concreti a cui attaccarsi ce n’era per tutti i gusti, cambiare paese con tre figli e due gatti, chiudere uno studio, svuotare una casa, trovarne un’altra, e le scuole, lo sport, gli scout, il calcare nei rubinetti della nonna, le vaccinazioni, i permessi di soggiorno, l’assicurazione sanitaria….le liste erano infinite.
Ma l’unica cosa vera era che io non volevo partire, non volevo lasciare la mia città i miei amici, mi umiliava fare la moglie al seguito, andare in un paese in cui le donne hanno il voto solo dal 1972, dover imparare da zero l’unica lingua che non ho studiato a scuola…e anche qui giù liste infinite di motivi per restare.
Nella sfilza di elenchi che affollavano la mia mente e gettavano nel panico il resto della famiglia, a un certo punto è arrivata la questione dell’italiano.
I miei figli maggiori, naturalmente molto preoccupati per sé, ma con abbastanza buon cuore da non infierire sulla madre, hanno cominciato a preoccuparsi che loro fratello non avrebbe imparato a scrivere nella nostra lingua.
In realtà anche qui c’era dietro tutta una storia di nostalgie, contavamo di poter andare ancora per cinque anni alle nostre elementari a prenderlo e a salutare la maestra. Ma l’ipotesi che il piccolo, -che a due anni parlava come il Devoto Oli, ma ha fatto in Italia solo la prima elementare- perda l’uso della lingua scritta, ha un qualche fondamento.
Così ci siamo attrezzati, abbiamo portato con noi i libri di scuola e abbiamo fatto leva sulla nostalgia, per tornare in 2B ogni volta che siamo in vacanza in Italia.
A Natale gli abbiamo fatto scrivere biglietti d’auguri in cui tutti gli accenti era già diventati francesi.
Dopo Pasqua è iniziato il braccio di ferro per fare un’oretta di scrittura alla settimana:
-Non ne ho voglia.
-Sì lo so, ma bisogna allenarsi un po’.
– Ma io non ne ho bisogno, mi alleno già a scuola.
– Sì lo so, ma a scuola ti alleni in francese e bisogna che tu impari a scrivere anche in italiano.
– Ma io so già scrivere.
– Bene fammi vedere, scrivimi una storia.
La storia era bella, le doppie erano quasi tutte giuste, ma il verbo avere era un po’ di qui un po’ di là dalle Alpi, così sono ripartita alla carica:
– Tesoro lo so che adesso fai fatica a capirlo, ma io e babbo ne abbiamo parlato e siamo sicuri che se adesso non fai questo sforzo, poi da grande sarai dispiaciuto. Noi conosciamo tante persone qui che a casa parlavano italiano, ma non lo sanno scrivere bene e si vergognano, anche persone che hanno studiato tanto.
– Mpf. Va bene, faccio questa pagina, ma solo questa.
Così di settimana in settimana, un po’ per amore e un po’ per forza abbiamo seguito il libro di italiano e fatto i compiti.
Finché sabato scorso i suoi fantastici capi scout hanno presentato il tema del campo estivo: Narnia…
Siamo tornati a casa, è andato alla libreria, e ha tirato fuori il tomo che suo fratello aveva traslocato (lo aveva già letto due volte, ma non si poteva lasciarlo indietro, non si sa mai), Le Cornache di Narnia, 1152 pagine, e ha cominciato a leggere.
E non ha più smesso.
Da quattro giorni è perso in un libro più grosso di lui.
Ogni tanto lo aiuto, leggo un po’ e ne approfitto per chiedere cosa è successo prima, e scopro che davvero lo sta leggendo, e capendo, a suon di una cinquantina di pagine al giorno.
Allora se davvero per passione questo ragazzino di sette anni, se la cava con l’italiano un po’ aulico della traduzione del signor Lippi, e con gli intrecci fantastici di C.S. Lewis, non ha troppo bisogno che io lo assilli con le h e l’ortografia.
E io mi sono posta un altro problema inutile.