La sconfitta

Ho scritto queste righe un anno fa, appena emigrata, e sono rimaste lì. Ora vorrei riprenderne il filo e, a puntate, esplorarne le ragioni. Non so ancora se sarà questo il luogo, FQCP è uno spazio che voglio condividere e questa è una storia mia, ma non solo. E’ la storia di molti di cui si dice poco, di cui chi resta ha un’immagine confusa. Di certo voglio approfondire, per capire, perché è bene che se ne parli, e con le parole giuste, stando nelle cose, senza ideologia. Perché sogno ancora che si possa fare rete tra chi è partito e chi è rimasto, per cambiare le cose.

La sconfitta

La sconfitta sono io. La definizione potrebbe infastidire, sembrare inutile autocompatimento, ingratitudine verso la vita, chi mi legge la potrebbe trovare irritante, io l’ho trovata orrenda.

In fondo sono sana, ho tre bei figli, sani anche loro, non sono in ristrettezze economiche, un marito con un lavoro prestigioso in un paese sicuro e neutrale, con il tasso di disoccupazione più basso al mondo. Di me si potrebbe dire “non le manca nulla” e di questi tempi so che è già moltissimo.

Ma la sconfitta sono io. E non si tratta di piangermi addosso, ma di stare nella consapevolezza di quello che c’è ora. La mia è la storia di una battaglia e di una sconfitta, solo guardandola posso pensare di ripartire.

Non mi servono consolazioni, so di avere molto di più di molti altri. Non mi serve neanche pensare che la vita non è mai come vorremmo, lavoro tutti i giorni sull’accettazione per vivere nel presente.

Negare la sconfitta sarebbe come negare tutto quello che sono stata e ho fatto per più di quarant’anni. Arrendermi e accettarla come quello che ora la vita mi offre è l’unico modo per andare avanti e fare qualcosa di nuovo.

Mi serve guardare bene la mia sconfitta, perché non voglio portarne il peso da sola. E non voglio distribuirlo solo su chi mi sta accanto. Voglio esplorarla fino in fondo, metterla a nudo in ogni sua più piccola parte, smembrarla e rispedire al mittente i pezzi che non sono solo miei.

Quando praticavo danza terapia mi hanno insegnato che non sempre bisogna allontanare la malinconia con una musica allegra, anzi, spesso è bene danzare tutta la nostra tristezza con una musica che si intoni e andare fino in fondo per guardarla in faccia.

Questo voglio fare, la scrittura sia la mia musica, mentre vivo in questo paese ordinato e pulito che non è il mio, mentre la nostalgia è un peso di piombo nel mio stomaco.

Leggo ogni mattina le storie di quei poveretti che rischiano la vita propria e dei propri bambini per raggiungere questa sponda del Mediterraneo; spero che la mia coscienza civile indignata possa mettere a tacere il dolore privato del distacco, sbattendomi in faccia la fortuna che ho, le opportunità che sto dando ai miei figli. Guardo le cronache della mia città, i malfunzionamenti del mio Paese, le scuole che ripartono senza inseganti e fondi per i progetti speciali, per costringermi a gioire dell’efficienza e qualità del servizio di cui beneficiamo qui. Partecipo ai gruppi wapp delle ex-classi dei ragazzi, madri disperate per i compiti delle vacanze non finiti e i libri da comperare, qui i compiti delle vacanze non esistono e i libri ce li da la scuola.

Ma tutto questo non basta, non mi aiuta, non va al nocciolo della questione.

La questione è spinosa, privata e pubblica, intima e civile, allo stesso tempo.

Ho provato a resistere perché sono testona, perché ho amato il mio Paese più della mia famiglia, perché la mia identità è nelle mie radici più che nei miei figli; perché sono stata ingenua e presuntuosa: ho pensato di farcela dove altre fallivano e ho pensato di poter cambiare le cose.
E il mio Paese non era dalla mia parte.
Ma io non lo sapevo.

 

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