Venerdì sera pensavamo di unire le nostre piccole delusioni calcistiche, insieme a quelle ben più globali dei nostri amici americani, e di fare una grande cena consolatoria intorno al nostro nuovo tavolo ovale.
Così già al mattino presto, avevo impastato una dose esagerata di pasta per pizza ed ero riuscita a coinvolgere i due adolescenti in un, non facile, lavoro di ripristino delle condizioni igienico sanitarie della casa.
Il piccolo intanto, da ora di pranzo, si rotolava nel fango col suo amico S. e non si sarebbero separati fino a dopo cena.
Per evitare che vanificassero i nostri sforzi d’igiene domestica, ho cercato di fare in modo che i due ottenni restassero fuori casa il più possibile.
Ogni tanto controllavo che non fossero surgelati mentre costruivano spade laser in bamboo.
Poi con la promessa di un dolce, li ho mandati tutti fieri in missione di fronte a casa a comprare uova e burro.
Alla fine ho ceduto al gelo e li ho sistemati davanti alla BBC. Si sono messi abbracciati sotto la coperta a commentare in francese un documentario inglese sui delfini, beata la loro capacità di imparare le lingue.
Mentre li guardavo così felici, pensavo che per fortuna non c’è solo il calcio e ci sono anche amici affettuosi.
Peccato che in fine di serata la nostra amata E., la fatina del pianoforte e mamma di S., ci ha annunciato che giovedì il papà di S. partirà per la California, dove è stato convocato per un colloquio proprio lì, nel L’Azienda dei sogni, dove tutti vorrebbero lavorare. Quindi se tutto va bene, e noi non possiamo che augurarglielo, entro pochi mesi dovranno partire.
E. era triste, qui si era costruita una piccola rete di allievi di pianoforte e qualche volta insegnava nella scuola internazionale, avevano trovato un piccolo appartamento con vista sul lago. Solo che la borsa di studio di suo marito sta per finire e di certo non si possono permettere di rifiutare un’offerta di lavoro. Son partiti con Obama presidente e torneranno con Trump, non c’è da stare allegri.
Intanto io cerco le parole per dire al mio piccolo che anche quest’amico partirà.
Per fortuna a cena sono arrivate anche le gemelle e dopo una serata di risate e trucchi sono rimaste da noi. Così la notte del venerdì si è riempita di un frullio d’ali bionde e smalti per le unghie. Hanno dormito in tre sul divano, mia figlia in mezzo, chiacchierato moltissimo, giocato a carte, mangiato due teglie di pizza, e tre secchi di latte e cereali.
Passare una serata coi loro genitori è sempre istruttivo per noi. Mentre noi ci struggiamo in sentimentalismi, nostalgia di casa, pensieri sul futuro lontano e soldi dilapidati in affitto. Loro hanno un piano efficiente per tutto, non per nulla sono un economista americano e una statistica tedesca.
Così tra un rammarico elettorale e l’altro, mentre si dispiaceva per aver scritto un’email a suo zio per dirgli che stavolta non potevano votare Bernie perché era ineleggibile, K. ci ha illustrato il suo piano e noi ci siamo sentiti degli inguaribili imbranati.
Loro sono arrivati qui nello stesso momento in cui arrivavamo noi, avevano al seguito tre cani, uno enorme, un pianoforte a coda e due figlie di undici anni.
Il fatto di avere i cani è stato determinante nel sapere che sarebbe stata dura affittare una casa. Quindi molto pragmaticamente, K e B in primavera sono volati qui per una settimana e hanno trovato una casa da comperare. Hanno venduto tutto quello che avevano per pagare l’anticipo, ma l’hanno fatto in serenità, perché, ci hanno spiegato, se si sta qui più di due anni, coi tassi di interesse che ci sono e i mutui al 90%, è di sicuro più economico comperare. Loro erano certi di restare quattro anni, uno è già passato, ma ne è valsa la pena.
Ecco qui, detto fatto, ché le case son solo mattoni e l’importante è quello che ci si fa dentro, mica come noi romanticoni che piangiamo sulle nostre radici e comperare casa ci sembra una scelta definitiva, figurarsi poi venderla.
Una serata tra expat mi ha fatto pensare a quanto siano fragili gli equilibri che ci costruiamo, ma anche che tutto dipende da come decidiamo di prenderla.
Se la vediamo come un buon allenamento allora stiamo diventando degli agili atleti, tutti e sette, anche i gatti, che fanno i pendolari.
Stiamo allenando il muscolo del cuore a fiutare nuovi amici al di là delle distanze linguistiche.
Siamo capaci di mantenere gli amici del cuore a casa, tornandoli a trovare appena possiamo.
Ma anche di voler bene a persone di passaggio, che già sappiamo ripartiranno oltre l’oceano.
Insomma più che una passeggiata è un boot camp degli affetti.
Ma quando riusciremo a tornare avremo molto da portare indietro.