Quindici anni fa una mattina ero al telefono con un’amica. Era inverno, tutte due eravamo a casa dal lavoro da qualche mese a occuparci dei nostri primogeniti neonati.
Entrambe pativamo la situazione, nonostante la gioia della nuova vita.
Lei era una mente brillantissima, con una proprietà di linguaggio e una sagacia che non ho più incontrato.
In realtà era prima amica di mia madre, ma la maternità e la vicinanza anagrafica ci avevano regalato quei mesi d’intesa.
Ci sentivamo spesso in quel periodo.
Suo figlio era nato a primavera, il mio in autunno.
Lei mi aveva illustrato le meraviglie della linea gialla, l’unica metropolitana a misura di carrozzina, dove infilarsi e viaggiare quando le mura di casa cominciavano a farsi strette.
La depressione si annida nelle case e si sconfigge a passeggio.
Lei oramai era già al marsupio e usciva tutti i giorni con ogni tempo.
Io non avevo l’ascensore e facevo più fatica.
Insieme, con qualche pudore, ma senza vergogna, esploravamo il lato oscuro della maternità.
Armate d’ironia, talvolta sarcasmo, della sua poesia e della mia pragmaticità, ci facevamo compagnia nella scoperta che non ce l’avevano raccontata proprio giusta: non era tutta una nuvola di borotalco.
Quella mattina commentavamo fatti di cronaca.
Il giorno prima un bambino era stato orrendamente trucidato nel letto dei suoi genitori, in una casetta in montagna.
Da pochi giorni una giovane madre aveva messo in lavatrice il suo neonato.
Le nostre erano chiacchiere, non riflessioni profonde. Ma a un certo punto entrambe eravamo state prese dalla consapevolezza:
-Ma ti rendi conto che neanche per un secondo abbiamo messo in dubbio che fosse la madre?
I giornali ancora erano vaghi, le indagini appena cominciate, ma noi senza dirlo ad alta voce, sapevamo.
Sapevamo che era possibile.
Che vita e morte sono separate da un soffio e le madri si muovono su quel respiro.
Che talvolta c’è dell’intenzione, talaltra solo disperazione, spesso solitudine, quasi sempre sfinimento. Che una madre assassina per volontà o disattenzione è un tabù non lontano.
Ma io e la mia amica con la sua luminosa intelligenza, neanche per un secondo abbiamo giudicato.
Mai abbiamo osato dire, A noi non succederebbe mai.
Perché ci vuole coraggio a guardarsi dentro.
Ma quando lo si è fatto anche solo un po’, ci vuole malafede per proclamare che dentro di noi non ci sono zone d’ombra. Tutto chiaro, preciso, immacolato alla luce del sole.
Con che faccia dire che non saremo mai troppo stanche, infelici, fuori controllo o magari felici e distratte, che non perderemo mai l’attenzione.
Che nel momento in cui la sorte ci volterà le spalle noi saremo lì, pronte a farle cambiare idea, a raddrizzare il mondo, a combattere come Giovanna d’Arco contro il demonio. Che sapremo sempre metterci tra l’automobile e il pallone sfuggito in strada, tra la finestra e il davanzale, tra il bordo vasca e la piscina, tra i fornelli e la pentola d’acqua.
Non è vero e lo sappiamo tutte dentro di noi. Perché queste sono solo le nostre speranze. Le speranze delle madri. Non abbiamo altro. Speriamo di avere fortuna.
E infierire contro chi non è ha avuta, è non solo crudele, è un’infamia da vigliacchi.
Tanto vigliacchi da non sapersi guardare dentro, per paura del buio che ci potreste trovare.
PS. Quando siamo emigrati io mi sono rifiutata di guidare l’automobile. Non ero a mio agio con l’auto di mio marito. Non conoscevo le strade, la lingua, i segnali stradali. Potevo permettermelo, qui bus e treni sono perfetti. Ma soprattutto non ero a posto con me, partire mi aveva resa molto infelice. E avevo abbastanza consapevolezza da saperlo e farci i conti. Non guidare per un anno e mezzo è stata la mia misura di sicurezza.
Ripenso spesso a quella conversazione con la mia amica che non è più qui, come alla mia presa di coscienza, e ogni volta mi ripeto: Poteva succedere a me.
E quando due settimane fa mio figlio si è amputato un pezzo di mignolo, io ero a un passo e nulla ho potuto, ma oggi mi ripeto: Poteva andarci peggio.
PPS. FQCP è nato un po’ quella mattina di quindi anni fa, quando ho intravisto cosa potrebbe esserci nel buco nero dentro di noi, e ho pensato che si può solo andare avanti facendo quello che si può e magari aiutandosi senza giudicare.