Settimana scorsa abbiamo inziato un nuovo ciclo di scambio pranzi con i due fratelli arrivati la primavera scorsa dalla California.
Il più piccolo è in classe col mio, entrambi sono nella squadra di calcio, e abitano a poche case di distanza da noi, adorano giocare nel fango e si sono costruiti una capanna sotto il letto, non potevamo chiedere di meglio.
Il loro papà lavora per una ONG e prima di arrivare in Svizzera avevano vissuto tre anni in Kenya.
Poi erano tornati negli Stati Uniti ma l’estate erano venuti in vacanza in Svizzera a trovare dei parenti e quasi per caso lui aveva ricevuto un’offerta di lavoro e a gennaio si sono trasferiti, questa volta per restare.
La mamma è svizzera e parla con loro in svizzero tedesco, il papà in inglese, quindi il francese per loro è la terza lingua, ma mi sembra vadano alla grande.
Giovedì a pranzo era il primo turno di mio figlio a casa di D e M.
– Sai mamma, D e M, dicono la preghiera prima di mangiare.
–Ah, beh non mi sembra male ringraziare per il cibo, ma che preghiera è, hai capito? In che lingua?
– Mah, cantano una canzone in francese.
–E tu hai cantato?
–Un po’ quello che capivo, e poi ho mangiato tutto e ho assaggiato l’insalata con l’aceto e non è male.
–Bene! Tu se non vuoi cantare non farlo, ma l’importante è che rispetti il momento della preghiera, per loro è importante.
Venerdì M è venuto da noi da solo, suo fratello era impegnato con la mamma, e lui usciva prima quindi alle 11,30 mi sono trovata sulla porta questo ragazzino beneducato che ha giocato a calcio e poi è tornato a scuola a prendere il mio bambino.
Quando ci sono loro io approfitto per parlare in inglese.
Da quando siamo nella francofonia, abbiamo sempre avuto un pranzo alla settimana per non perdere l’inglese che avevamo faticosamente imparato in Italia e mi tengo stretta questa tradizione.
Il mio piccolo ribelle però si ostina a parlare in francese, anche se interviene sempre a proposito, dimostrando di capire perfettamente.
–M if you want to say your blessing, feel free to do it, we’ll respect you. ( M. se sei abituato a dire le preghiere, puoi farlo, io e questo piccolo ribelle ti rispetteremo, ci teniamo che tu ti senta a tuo agio a casa nostra)
–Oh yes, thank you, it’s a song, it says Merci Seigneur.
–Oh, good, go on.
Intanto mio figlio viene colto da un attacco di risa incontrollate, veramente contagiose, così anche l’officiante fa un po’ fatica a mantenere il contegno.
–Hhhm, the thing is… I don’t know, if he knows who’s Seigneur. (ecco, il fatto è che non mi sembra che lui abbia idea di cosa sto facendo, ride a crepapelle, e io sono un po’ a disagio)
–Oh, no, don’t worry, he knows enough. In Italian the Lord is called Signore. (non ti preoccupare, è un tamarro, figlio del peccato, ma dovrebbe essere abbastanza educato da rispettare la tua preghiera, soprattutto perchè ci tiene a giocare a pallone con te dopo e ha fatto abbastanza partite all’oratorio per sapere che calcio e preghiera hanno uno stretto legame, tenderebbe anche a farsi il segno della croce prima di tirare un rigore, gliel’ho dovuto vietare) But do you usually sing in French? ( ma a casa tua di solito pregate in francese?)
–Ehm, no, we sing a different song in German, I do it in French because of him. ( No veramente noi preghiamo in svizzero tedesco, ma non posso pretendere tanto da questa percorella smarrita)
Dopo la partenza complicata, M ha cantato i suoi dieci secondi di ringraziamento ottenendo quasi il rispetto del suo amico. Dopodichè hanno mangiato come non ci fosse un domani e mio figlio, avuto il permesso di giocare a pallone finita la mela, è schizzato via da tavola senza aspettare nessuno.
Mentre contravvenivo alle mie stesse regole e gli imprecavo dietro nella nostra colorita lingua madre, Sei un cafone, aspetta che il tuo amico abbia finito di mangiare e porta almeno il piatto nel lavandino, il piccolo M finiva il suo spicchio di mela e non si muoveva finché, a bocca vuota, mi ringraziava per il buon pasto e ottenva il permesso di alzarsi.
A quel punto loro si sono scatenati in giardino in qualsiasi gioco di palla possibile, urlando come due ossessi, poi M è tornato a scuola perché entrava prima, non senza avermi ringraziata ancora una volta.
E io mi sono ritrovata avvolta da tutta questa gratitudine a chiedermi se non sono troppo ambiziosa a sperare d’insegnarla ai miei figli senza evocare le fiamme dell’inferno.
Senza gli effetti speciali della religione è davvero più difficile insegnare la gratitudine che non sia pura forma, buona educazione.
Io coi ragazzi ho sempre praticato la libertà di credo e il rispetto, non mi sento il diritto di imporre nessuna fede, ma neanche di negarne loro la possibilità di una spiritualità imponendo l’ateismo.
Mi sembrano tutte faccende veramente intime, e il fatto che nessuno possa dirti in cosa credere, neanche tua madre, mi sembra il migliore insegnamento in questi tempi d’estremismi. E questa è stata la mia educazione spirituale.
Poi mi trovo davanti questi due fratelli che hanno visto l’Africa da vicino e si muovono liberi, ma ringraziano per il cibo. E mi chiedo se sto facendo bene.
Intanto dal piano di sopra mio figlio sul gabinetto canta a squarciagola:
-Occupiamo la tangenzialeee! Con l’acquaaa mineraleee!