L’anno scorso quando mi chiedevano:
– Adesso sei contenta di essere partita?
Avevo un brivido, e rispondevo:
– Contenta è una parola grossa. Diciamo che ora sono convinta di aver fatto la cosa giusta, per tutta la famiglia, e alla fine forse anche per me.
Poi d’estate al mare, mio figlio piccolo spiegava:
– Noi siamo italiani, ma l’anno scorso siamo emigrati in Svizzera.
E mia zia inorridiva:
– Ma no tesoro, tu non sei emigrato, tu sei partito perché il tuo papà è importante e ha un bellissimo lavoro in Svizzera.
Appunto, dico io.
Noi siamo emigrati dall’Italia e in Svizzera siamo migranti, o immigrati.
Perché la parola emigrare assomiglia un po’ a periferia. Sono nate per descrivere una faccenda geografica, ma pian piano hanno acquisito una connotazione economica, sociale, culturale, sempre più negativa.
Quando insegnavo geografia politica ed economica, lavoravamo un sacco sulle mutazioni del concetto di periferia che non rispetta più l’etimologia di lontano dal centro. Perché in molte città del mondo i centri storici hanno le caratteristiche che nell’uso comune si attribuiscono alle periferie, e il fiorire di ricche gated communities nei sobborghi indebolisce ancora di più l’equazione lontano dal centro=svantaggiato.
In tutto questo fluttuare di significati, mi fa piacere che il mio bambino si definisca emigrato.
Mi piace che dia conto della nostra duplicità. Delle radici che si allungano. Del cuore là e la testa qua. O sempre più, un po’ di cuore e un po’ di testa da entrambe le parti delle Alpi.
Mi sembra un modo per tenere conto e rispettare anche la sofferenza di lasciare tutto, di essere l’ultimo arrivato, di non riconoscersi in una lingua, una cultura, in un Paese che deve diventare casa.
In questo secondo anno, per noi le cose vanno decisamente meglio.
Posso azzardarmi a dire che abbiamo trovato un equilibrio.
Ma il nostro nuovo equilibrio è comunque tra due Paesi.
Non staremmo in piedi se non potessimo tornare in vacanza a casa.
Noi siamo emigrati di lusso, ma mi sembra giusto essere nella stessa categoria di quelli che alla Stazione Centrale ci dormono.
Mi sembra giusto che la definizione si trasformi e ci tenga tutti insieme.
Sabato scorso siamo andati a cercare una macchina usata, e un illuminato venditore era molto curioso di noi e della nostra vita. Ci ha chiesto cosa pensiamo del sistema svizzero, e ha detto che secondo lui è ora di smetterla di pensare per nazioni, bisogna pensare più in grande.
Ieri ho compilato i moduli per rifare le carte d’identità. Sono in ritardo. Avrei dovuto farlo da mesi. Ma non riuscivo proprio a metterle in una busta e spedirle al consolato. Cancellare l’ultimo documento della nostra residenza, il legame ufficiale con la nostra città. Poi ho scoperto che comunque c’è scritto: Comune d’iscrizione all’AIRE (Angrafe Italiani Residenti all’Estero), cioè ci sarà sempre scritto da dove siamo partiti, ma si aggiungerà dove siamo arrivati.
Allora ho capito che noi davvero stiamo sperimentando una nuova cittadinanza.
Una cittadinanza in cui le radici si allungano, piena di viaggi, col piede in due scarpe.
Dal dentista si va in Svizzera, ma al cinema e dal parrucchiere si va solo in Italia.
I libri si comprano a Milano. Matite e colori in Svizzera.
I ravioli e gli sci in Valsesia. La pizza dove capita, anche alla Stazione Centrale.
I nostri ricordi sono al sicuro in montagna e quando torniamo giochiamo ancora ai playmobil. Ma nel nostro nuovo giardino si fanno delle bellissime grigliate e nascono fiori anarchici che non abbiamo piantato.
Mi piacerebbe che si raccontasse la nostra storia insieme a quelle di chi fa altri esperimenti e altri viaggi, e che le zie pensassero che non siamo così diversi, siamo tutti emigrati, solo più o meno fortunati.
Magda
Belle parole di gente fortunata “emigranti di lusso”, di persone che nulla hanno in comune con chi, migrante, dorme alla stazione, con chi non riesce per lungaggini burocratiche a far riconoscere il proprio stato di rifugiato, con chi è fuggito da guerre e violenze e che ha rischiato la vita nel viaggio, con chi non sa se ci sarà un domani dignitoso….E potrei continuare, ma mi fermo per non cadere nel “populismo” , parola inflazionato che ha perso il suo vero significato.
Alessandra Spada
Cara Magda,
mi spiace che non abbia capito, è proprio questo il punto. Se si riuscisse a vedere che la parola è la stessa, il movimento è simile, è solo la fortuna a essere differente, forse potremmo cominciare a usare la parola migrante nella sua accezione reale, che non è positiva, né negativa, designa un movimento. E poi accanto potremmo metterci delle specificazioni, degli aggettivi, fortunati, sfortunati, di lusso…quello che desidera. Allora il concetto sarebbe meglio posto all’interno di un mondo che cambia, in cui le persone si spostano. E chi dorme in stazione centrale non è poi così diverso da noi, ha solo una diversa fortuna, e forse colore della pelle.
La diquisizione può sembrare capziosa, ma io confido nei cambiamenti culturali e nelle prossime generazioni. E queste sono fatte anche da un fortunato bambino di sette anni che sulla spiaggia si definisce emigrato. Perché per quel bambino quella parola non avrà mai un significato negativo, lo stesso non posso dire di molti suoi coetanei e connazionali.
con rispetto
Alessandra