11. E arrivò novembre

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Le avevano detto: devi arrivare a novembre!

Poi alla metà del mese l’avrebbero ricoverata e ci avrebbero pensato loro a portarla a termine. La questione, che le hanno spiegato per bene solo dopo, è che per legge dopo un certo numero di settimane il bambino va salvato per forza. Anche se nasce con le capacità vitali di una zucchina, i medici sono tenuti a fare di tutto per tenerlo in vita.
E quindi lei nel peggiore dei casi, avrebbe potuto trovarsi a ventisei anni a vegliare suo figlio attaccato per sempre a delle macchine.
Per questo passata quella data i medici l’avrebbero ospedalizzata e messo in piedi un complicato protocollo sanitario, con alcuni farmaci per fermare le contrazioni a ogni costo e altri per stimolare la crescita del feto, soprattutto lo sviluppo polmonare, con la speranza di far nascere un bambino sano.

Le sue dottoresse la chiamavano ogni giorno per sentire come andava e per passarle di volta in volta solo le informazioni necessarie a spiegarle cosa stava succedendo, senza spaventarla troppo.

E lei a furia di pazienza e con la forza della disperazione, a novembre ci era arrivata. La sua parte l’aveva fatta.
Sarà per questa ragione che quel pomeriggio del cinque del mese, quando ha sentito una nuova energia pervaderla, ha assecondato il desiderio e si è alzata dal letto.
Poi ha avuto voglia di camminare per il corridoio e l’ha fatto, senza che le gambe le tremassero.
Infine ha osato anche fare un bel bagno, che settimana prossima sarebbe stata in ospedale e chissà come si sarebbe lavata.

Fatto tutto questo ha cominciato a sentire delle fitte alla schiena, ma lei al corso preparto non era potuta andare, quindi non lo sapeva che quello che le stava succedendo si chiamava travaglio, e che quello che aveva fatto per istinto, è quanto ti insegnano le ostetriche: cammini, si rilassi, faccia un bagno caldo.

Quando però era già buio, e lui finalmente è tornato a casa dal lavoro, lei gli ha chiesto di chiamare l’ambulanza.

E la croce viola è arrivata dopo pochi minuti che sembravano eterni. E dei ragazzi meravigliosi si sono presi cura di loro, di entrambi. Parlavano con voce calma e rassicurante, e sembravano degli angeli, si sono preoccupati che lui chiudesse la casa e prendesse le chiavi. E a lei dicevano solo che era bravissima e che tutto sarebbe andato bene.
Però la ragazza che le teneva la mano aveva le lacrime agli occhi mentre le parlava e le diceva: Non resistere, se senti che devi spingere, lascia andare, va bene così.

E lei aveva obbedito e intanto erano arrivati in ospedale e prima che se ne rendesse conto il suo bambino era andato a occupare tutti i suoi sogni. E lei era rimasta una ragazza piena di sogni, ma ora laggiù non c’era più la Raimbow Warrior. C’era solo lui.

E quello che è successo dopo l’ho raccontato qui.

Ma siccome questa è la storia di come è nato Faccio Quello Che Posso, le prossime puntate saranno tutte allegre, e partire da lunedì ci saranno delle belle sorprese, non si piangerà più e spero che si riderà almeno un po’.

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