Oggi nel nuovo angolo expat di FQCP ospitiamo il bellissimo testo di Nunzia Picariello, Annunziata. Sono sei mesi che le faccio la corte per averla qui, e spero sia sempre meno ospite, che si sistemi per restare.
Perché Nu è speciale, la sua storia di andate e ritorni, da sud a nord e viceversa, ne raccoglie mille. Il privilegio di sentire da una donna cosa sentiva la bambina che lasciava la sua terra per venire qui oltralpe, ogni volta è un regalo. E come la scrive lei poi.
Il tema dei nomi è sempre più attuale nelle classi dei nostri figli, ma come ci insegna Nu, non è una novità di cui stupirsi.
Annunziata. Mia nonna mi regalò questo nome e una coperta all’uncinetto. Niente altro. Di nipoti ce n’erano già tanti; e pure di pronipoti. Poi, ero femmina di figlio maschio, niente sepponda*.
C’ero: in famiglia si limitarono a prenderne atto.
Dei tre nomi che possedeva mia nonna- Maria Rosa Annunziata- scelsero quello più antico. Quello che proprio proprio, in francese, non trovava nessuna corrispondenza e che aveva il grado di pronuncia più improbabile. La z e la u, si trasformavano in s e ou e il risultato era uno scioglilingua impossibile.
Invidiavo i destini delle mie compagne di scuola: Rema, indiana, che aveva un nome esotico, uno sguardo magnetico e sapeva cosa voleva. E invidiavo Maria, spagnola, con il suo nome comune e le labbra carnose. E pure Janick: il suo nome sembrava l’essenza della bionditudine svizzera. E la francese Catherine, l’inglese e diafana Zoe; e invidiavo perfino Steve, che veniva da Brindisi: i suoi pensarono di regalargli un nome internazionale. Si sa mai nella vita.
I miei maestri, stufi di sputare in cattedra ogni volta che facevano l’appello, mi ribattezzarono: fui chiamata Ann. Per una vita lontana che ricordo con chiarezza.
In Irpinia, Ann non la portai. La lasciai sul banco di scuola della sesta. Dove era giusto che rimanesse per sempre bambina.
In Irpinia arrivò l’altra parte contratta di Annunziata: Nunzia. Con quel nome mi sarei confusa. Una preadolescente come tante. Una di loro. Ma avevo un nome troppo vecchio, rispetto a Esther, a Carla, a Silvana. Ed ero svizzera: di moda non capivo un tubo. La musica italiana per me erano Albano e Romina, la musica straniera boh, la musica svizzera gli Jodler. Non era un biglietto da visita figo. Ancora, mi pareva un ingombro questa eredità di nonna. Una coperta di ricordi pesanti. Che alla fine nemmeno mi erano stati utili per crescere: poche storie di eroi. Tutti vinti e affamati.
Con il tempo mi sono contratta ancora. Oggi sono per tutti, nu. Non so nemmeno quando è successo. Forse quando sono arrivata all’essenza.
nu sono due lettere su dieci; sono due simboli capovolti che si abbracciano; sono il cuore di questo destino.
E io non sono tanto convinta che il destino sia nel nome. Ma che forse sia proprio il destino a dartene uno. A seconda di come butta.
*SEPPONDA– ossia l’usanza di dare al nascituro il nome del nonno