Le ragazze non sono tornate. A casa.

Jessica Valentina, Pamela, Desirée. Guardo le loro foto, i loro sorrisi: hanno la bellezza che solo la giovinezza sa mettere in luce. Avevano venti, diciotto e sedici anni. Un giorno non sono tornate. A casa.

Di tutto quello che sento e leggo di queste vicende, mi riecheggia nella pancia questa parola: casa. È lì che sarebbero dovute tornare. Ma era proprio lì, che da tanto, ciascuna di loro non tornava.

Sempre più riusciamo a salvare i bambini nati prematuri. Li mettiamo in queste grandi teche scaldate, li aiutiamo a respirare, li nutriamo: facciamo tutto quello che la natura dovrebbe fare e li regaliamo alla vita. E poi sembra che il peggio sia passato. Dimentichiamo. Non pensiamo più che i bambini e i ragazzi (soprattutto i ragazzi), hanno bisogno di una pancia dove stare. Una pancia dove tirare calci ché ci stanno stretti, ché hanno fretta di andare, ché vogliono vedere la luce; hanno bisogno di una pancia che li avvolga, li contenga, li faccia respirare e li regali alla vita: saldi e sicuri.

L’assenza di una casa-pancia è il cordone che lega Jessica, Pamela, Desirée e tutti quei ragazzi e ragazze che non finiscono sui giornali: solo spariscono nel buio del nulla. Che sia mare, droga, crimine, il rumore che fanno i loro corpi rimbomba solo quando s’infrangono contro l’orrore. Eppure, quanto dolore hanno patito quelle ossa secche? Chi ha raccolto il loro fiato corto? Chi ha messo un bacio sulle labbra tremanti di paura mentre pronunciavano parole audaci? Chi ha guardato la loro carne smaniosa con l’unico desiderio di proteggerla dalla pioggia acida? Chi ha incrociato i loro occhi e chiesto permesso?

“Dammi, ti prego, il codice per entrare. Dammi, ti prego, il coraggio di venire. Dammi, ti prego, l’umiltà di restare.”.

Chi?

Non c’è stata pancia per loro. Non c’è stata casa. E non è che qui possiamo guardarci intorno. Guardiamoci dentro. Tutti. Perché, se è vero che chi doveva dare una casa a questi ragazzi ha fallito, è vero anche che abbiamo fallito tutti. Tutti noi: genitori, comunità, villaggio.

Sono madre. E so che quello che mi rende pancia non è aver partorito. Mi fa madre il sentirmi pancia per ogni bambino e ragazzo della Terra.

E quando Alessandra mi ha detto: vieni qui? Ho detto, sì. Perché dare alla luce un figlio mette ciascuno di noi in un cono d’ombra e paure. Si fa come si può. Ma si deve fare insieme; perché insieme si cresce. Insieme si trova un percorso. O forse un appiglio. Si prova. Nessuno ha le risposte. Ma si può fare rete, si può essere pancia.

Questo sostegno è mancato ai genitori che oggi piangono i loro figli. Di queste perdite, siamo colpevoli tutti.

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