Diritti e diversi

Ho due figli. A dispetto dell`evidente somiglianza fisica (sembrano gemelli), non potrebbero essere caratterialmente più diversi. A gradi, condividono l’inclinazione all’ostinazione. Ciascuno affronta le problematiche della crescita tirando fuori risorse proprie e originali. Quasi mai, quelle che avrei tirato fuori io. Alcuni tratti di personalità dell’uno sono più affini ai miei. Altri, dell’altro. Li amo in maniera smisurata e indicibile; cerco di crescerli rispettando ciò che sono.
Un giorno, incontrai una mamma che aveva due figlie, una naturale e una adottata. Mi stupì la capacità con cui in famiglia, anche tra sorelle, facevano battute sulla pelle e sui capelli dell’una e dell’altra: questo mi fece solo appuntare che nell’amore immenso e sconfinato di una famiglia, c’è così tanto rispetto da poter “ridere” delle caratteristiche altrui.


Parto da qui per fare una riflessione sulle battaglie per il rispetto e i diritti che vedo cadere una volta sì e l’altra pure, nel politically correct. Un’attività che mi fa venire l’orticaria. Perché scambia il rispetto della diversità con l’uguaglianza formale, se non con il perbenismo delle parole. Sono la prima a dire che le parole hanno la loro importanza nella battaglia per il rispetto: ma anche qui, l’abito non fa il monaco. Ossia un significante non basta; occorre metterci dentro un significato. E quello è un fatto/atto culturale.


Tutti le battaglie dei diritti sono battaglie per il riconoscimento e il rispetto di una diversità (o dovrebbero esserlo, secondo me). E questa battaglia serve a costruire fatti/atti che vanno a formare il riconoscimento del diritto alla piena espressione di sé.
Insomma, io vorrei che si smettesse di appiattire tutto con slogan tipo: siamo umani. Certo, siamo umani e ci distinguiamo dagli alieni: però siamo anche uomini e donne; italiani, americani, africani, cinesi ecc.; siamo polentoni e terroni; e così via.


Un luogo, una lingua, il sesso, (e molte altre cose) ci identificano: nel senso che ciascuna di queste cose ha messo dentro di noi uno sguardo. Che è uno sguardo altro.
La categorizzazione è il male quando non ci concede di fare posto alla possibilità di variazione, alla curiosità per l’imprevisto. Quando la usiamo per metterla sul bilancino del migliore Vs peggiore; allora diventa la bandiera per negare il diritto dell’altro.

Non direi mai che i miei figli sono uguali per paura di fargli un torto. So che sono diversi, che il mio modo di rapportarmi a loro è diverso; che pure il mio amore, infine, è una coperta morbida che s’adagia alle loro forme.

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